Pregare «ad orientem versus»
studio sull’orientamento dello spazio liturgico a servizio della preghiera
La liturgia della Chiesa, nel corso dei secoli, ha acquisito e sperimentato innumerevoli modalità di celebrare la Pasqua del Signore crocefisso, morto e risorto, e per attingere con costanza a questa sorgente di vita e di grazia per i credenti, si è data dei luoghi dove potersi riunire stabilmente e in tutta tranquillità, potendo dedicare del tempo all’ascolto della Parola di salvezza e lodare Dio nei fratelli attraverso gesti e riti comunitari. Questi luoghi destinati al culto cristiano, evoluti e moltiplicati nel corso dei secoli, hanno influenzato e caratterizzato le varie comunità cristiane, che in essi si ritrovavano fino a creare veri e propri stili tipici delle singole culture di riferimento. L’elemento comune a tutta questa varietà architettonica e stilistica era l’obiettivo finale della costruzione, nonché il suo senso profondo, ovvero disporre di un edificio costruito da mani d’uomo destinandolo esclusivamente all’incontro con Dio, facendo in modo che favorisse questo rapporto anche attraverso le forme e gli stili con i quali esso si presentava, sia ai credenti che al mondo. Questo incontro con Dio era favorito anche dal fatto che questa costruzione fosse disposta in modo tale che tutto convergesse e guardasse a Lui, a partire dall’orientamento dell’edificio, che era disposto verso oriente ― primo simbolo originario di Cristo ― sole di giustizia portatore di un’alba nuova. Ecco allora che i cristiani dei primi secoli, fedeli e legati a questa prassi, la innalzarono a disposizione consueta nell’atto di volgersi in preghiera, sia durante le liturgie comunitarie che in forma privata, durante i momenti di orazione, nelle loro case. L’allora cardinale Joseph Ratzinger affermava che «la preghiera rivolta a oriente è una tradizione che risale alle origini ed è espressione fondamentale della sintesi cristiana di cosmo e storia, di attaccamento all’unicità della storia della salvezza e di cammino verso il Signore che viene. La fedeltà a ciò che ci è stato già donato, così come la dinamica del progredire, trovano in essa pari espressione» .
In queste pagine c’è il desiderio di accompagnare chi legge alla scoperta di questa mirabile tradizione antica, del volgersi in preghiera orientati verso una direzione cosmica, che ben prima dei cristiani era valorizzata nel culto, come conversione ― anche del corpo ― a Dio che si rivela, perché con l’aiuto dello Spirito Santo, il cuore si muova e si rivolga a lui (cfr. DV 5). Questo desiderio trova concretezza nella domanda sottesa che accompagna tutta la lunghezza del testo; è un interrogativo di senso, prima ancora che di utilità: l’orientamento liturgico, oggi, serve a guardarsi, a guardare verso Dio o ad orientare la preghiera?
Il primo capitolo di questo elaborato si articola secondo due questioni introduttive, potremmo dire, che riguardano l’indagare sul motivo per il quale nella preghiera sia necessario parlare di orientamento e dove affondi le sue origini questa prassi attestata ben prima dell’avvento del cristianesimo. Nel secondo capitolo invece, si andranno ad evidenziare quali conseguenze ha avuto, per gli edifici di culto, questa usanza di orientare la preghiera; in particolare, essendo interessati ad offrire una prospettiva cristiana dell’orientamento liturgico, l’indagine si concentrerà sull’evoluzione storica dell’architettura cultuale, partendo dalle prime sinagoghe ebraiche, passando per le domus ecclesiæ, esaminando poi l’evoluzione basilicale delle chiese fino ad arrivare all’epoca moderna, precisamente alla diffusione della contro-riforma cattolica. Nel descrivere questo breve excursus storico dell’architettura cristiana, oltre ad avere una particolare attenzione nell’evidenziare di volta in volta gli sviluppi in tema di orientamento della preghiera, si è scelto di iniziare la descrizione a partire dalle antiche sinagoghe ebraiche in quanto nei primi secoli dopo Cristo hanno influenzato in maniera determinante lo sviluppo degli spazi destinati alla liturgia cristiana, che in buona parte del mediterraneo hanno guardato al mondo semitico per elaborare tradizioni di culto rinnovate, però, alla luce della Pasqua cristiana. Il terzo capitolo è interamente dedicato agli sviluppi architettonici a noi contemporanei, avvenuti in conseguenza dell’evento ecclesiale più determinante del secolo scorso ― il concilio Vaticano II ― e a tutti quei fatti e movimenti che lo hanno preceduto, preparandolo e alle riforme che lo hanno seguito. Nel quarto ed ultimo capitolo, tenendo sempre come orizzonte l’orientamento dello spazio liturgico nella preghiera, porteremo alla luce tutti quei nodi rimasti scoperti o irrisolti dalla riforma conciliare, che alimentano in questi decenni il dibattito teologico-liturgico; l’intento è quello di offrire, assieme a rinnovati punti di vista sulla gestione dello spazio liturgico orientato a Dio, anche qualche soluzione pratica per le chiese già esistenti.
Questo elaborato, collocandosi nell’ambito dell’area sacramentaria, vive anche di una profonda vocazione ecclesiologica, in quanto l’edificio ecclesiale riflette inevitabilmente della visione che la Chiesa, intesa nella sua universale accezione comunitaria, ha di sé nel mondo in un dato momento storico. Riprendendo le parole dell’architetto Arnaldo Caleffi, posso dire che «più mi sono inoltrato in questa ricerca (la chiesa come costruzione) e più mi sono trovato a riflettere sulla Chiesa come comunità» .
