Nella morte la decisione ultima
Finito e infinito oltre il dualismo di Boros
Il tema che costituisce lo sfondo di questa riflessione è la morte. A motivare tale argomento, interviene un’esperienza personale, così destabilizzante, da annullare quelle coordinate esistenziali, che ti sorreggono. Affronto tale lavoro, con l’obiettivo primario di individuare delle situazioni che mi aiutino a rielaborare l’evento drammatico che ha intersecato la mia vita.
Prima di tutto, tratteggio uno scorcio storico, per scoprire l’interpretazione della morte nell’antichità, nel Medioevo ed oggi.
Inizialmente, emerge una dimensione naturale, che sembra mitigarne la tragicità implicita. Dagli studi di qualche autore, sulle tombe e sui monumenti funebri, affiorano due immagini: una violenta ed una imperturbabile.
Nel Medioevo, la morte viene attribuita alla volontà divina e la si accetta con rassegnazione, fiduciosi in una ricompensa ultraterrena: una dimensione di pace, ma che accompagna l’intero percorso di vita.
Attualmente, tendiamo a rimuovere questa realtà, relegandola alla sfera individuale, venendo a perdere, così, quella dimensione sociale che rivestiva nel passato, tuttavia, c’è chi dedica ampio spazio della propria ricerca a questa tematica.
Ad offrirmi un contributo che rientri in questo quadro è Martin Heidegger, esponente di rilievo dell’esistenzialismo contemporaneo. Secondo tale corrente di pensiero, la morte rappresenta la possibilità più propria dell’Esserci, incondizionata, certa ed insuperabile. Quando l’uomo prende consapevolezza della propria finitudine, diventa umano: il “si muore” cede lo spazio all’ “io muoio”. Essa non costituisce un solo atto finale, ma si configura come un processo in divenire. Anche il tempo assume una prospettiva particolare: è già tutto compiuto dall’inizio; una concezione che viene capovolta da E. Lévinas, il quale, nella morte, individua la pazienza del tempo e, più peculiarmente, in quella altrui ne coglie il senso.
Restando nel pensiero di Heidegger, rilevo che l’esistenza si configura come essere possibile nel mondo, caratterizzato da un insieme di variabili tra cui scegliere e sottolineo come nell’orizzonte delle molteplici opzioni, entra in gioco anche la libertà, con l’intento di permettere all’uomo di divenire se stesso.
A questo punto, focalizzo il tema dell’elaborato: l’ipotesi di una “decisione ultima”, che Ladislaus Boros formula in “Mysterium mortis”, scelta che si colloca proprio nell’istante della separazione dell’anima dal corpo. A suffragare quest’idea coraggiosa, intervengono le tesi di alcuni filosofi, con le loro indagini sulla volontà, conoscenza, percezione, memoria e sull’amore senza riserve.
Il teologo ungherese intende sperimentare il suo presupposto sul piano teologico, dove scorge dei punti di incontro, quali lo stato definitivo, la dottrina sulla salvezza come comunione personale con il Cristo, l’universalità della redenzione, la remissione dei peccati veniali e perfino il peccato originale, che viene ridimensionato. A fondare il suo pensiero è la realtà umana di Cristo, che perfeziona la sua strumentalità di salvezza proprio nella morte.
La mia analisi prosegue riportando a confronto alcune comprensioni della morte: come attività, passività, tappa intermedia, legata al mistero della creazione, un portarsi a compimento, una visione totale …
Intravedo, quindi, un’espressione di piena libertà nell’unico morire di Gesù Cristo. I Vangeli ce lo narrano in forma variegata, per esaltare la sua condivisione con la nostra umanità e il grande affidamento al Padre, che ne costituisce la novità, in un’esistenza, percepita come movimento estatico, derivante da Dio e tesa a tornare a Lui.
L’ipotesi di Ladislaus Boros ha prodotto ampie reazioni nell’ambito teologico occidentale, come racconta Pierluigi Plata, nel suo libro “L’ultima decisione dell’uomo”.
Ciò su cui si concentra l’esame dei commentatori è l’assunto presente in tutta l’opera dello studioso ungherese: «Nella morte si apre per l’uomo la possibilità per il suo primo atto pienamente personale; essa costituisce quindi il luogo veramente privilegiato del divenire della coscienza, della libertà, dell’incontro con Dio e della decisione del suo destino eterno».
Il dibattito intende appurare la veridicità di questa attestazione.
Alcuni intravedono nel lavoro di Boros un rilancio della libertà umana, quale unica protagonista nel decidere sul proprio destino eterno, altri sostengono che l’esercizio di essa si pratichi nell’intero corso della storia personale.
La proposta audace di una “decisione ultima”, in un istante a-temporale, manifesta molti punti di debolezza, a partire dall’uso strumentale del pensiero filosofico, perché risente di un forte dualismo platonico, in cui il corpo è prigione dell’anima, una concezione che differisce da quella rinvenibile nelle Sacre Scritture, dove a morire è l’uomo nel suo complesso.
La critica più comune può riassumersi nella svalutazione di tutte le prese di posizione precedenti (e pensare che Boros parla di compimento: di che cosa, si domanda J. Felderer), per sfociare in una salvezza a basso prezzo. Un autore italiano, M. Bordoni, considera imprecisa quest’ultima valutazione, in quanto non si deve parlare di conversione, ma di una revisione, al termine di un lungo lavoro di liberazione.
Un altro ricercatore, A. Spindeler, interpreta la formulazione di Boros come una vera tempesta, perché capace di mutare l’assetto fondamentale dei “Novissimi” e confligge con gli insegnamenti del Magistero.
A. Winklohfer, uno studioso tedesco che si schiera dalla parte di Boros, colloca, invece, questa deliberazione radicale sotto la luce di una Grazia illuminante.
Da qui il mio interesse a sviluppare il concetto teologico di grazia.
Bisogna infatti, seguendo l’auspicio di F. G. Patiño, dell’area spagnola, recuperare la presenza di Dio, dello Spirito Santo in ogni momento della vita del cristiano, non solo in quello finale: l’incontro con Dio che si realizza nell’istante della morte (per il teologo ungherese rappresenterebbe il Purgatorio) è solo il culmine perfetto. «Il cristiano riceve le ‘primizie dello Spirito’[…] e in virtù di questo Spirito tutto l’uomo viene interiormente rinnovato», si legge nella Gaudium et Spes al n. 22.
L’atto del morire può essere tanto intenso e decisivo, riferisce H. U. von Balthasar, solamente come auto-consegna nelle mani di Dio giudicante e misericordioso. L’affidamento totale al Padre, da parte di Gesù sulla croce è ciò che permette al Figlio di assumere su di sé il peccato del mondo.
Una corretta escatologia deve rapportarsi alla pneumatologia, rimarca F. G. Patiño, perché la morte è, nel senso completo della parola, un’azione dello Spirito Santo, senza cessare di essere un’azione perfettamente umana. In questa visione, per il credente, diviene una felice coniugazione dell’atto di un Dio con l’atto di un essere, che è giunto al punto più alto di divinizzazione.
Nella realizzazione di Boros è insita l’intenzione di illuminare alcuni dati di fede:
– l’inizio, con la morte, di una condizione definitiva
– salvezza come comunione personale con Cristo
– universalità della salvezza
– il peccato originale
– lo stato di Purgazione
L’universalità della salvezza non può automaticamente significare che essa sia uguale per tutti: il ruolo dei sacramenti verrebbe appiattito. La mediazione ecclesiale non rappresenta un tema marginale. Bordoni osserva che la morte è sì la fine dell’uomo, nell’aspetto corporeo/temporale, ma è pure il fine dell’esistenza come realtà spirituale. Emerge una problematica pastorale: come conciliare la morte improvvisa o i bambini non battezzati con la volontà salvifica universale di Cristo?
Boros, nella sua trattazione, è giunto a separare la storia dalla verità, dimenticando che il momento fenomenologico riporta al soggetto, nella sua singolarità ed unicità. L’appello a Gesù Cristo, che l’Autore si limita a leggere quale luogo in cui il Padre si rivela nella sua volontà salvifica, sta invece a significare come ogni principio universale possa essere determinato solo nella sua storicità.
Pertanto, al di là di ogni dualismo, nella nostra libertà resa possibile dalla vicenda di Gesù Cristo, il finito e l’infinito non si contrappongono, ma si compenetrano.
In questa prospettiva, l’idea di decisione ultima non è l’unica per parlare di morte attiva.
È una questione di partenza antropologica diversa, secondo la quale, il corpo è proprio il modo di essere dello spirito e dalla quale si genera una nuova funzione di libertà.
Per una corretta antropologia, sia che si utilizzi un linguaggio semitico, sia di stampo greco-platonico, l’uomo è sempre una unità sostanziale di corpo e anima. Se, talvolta, percepiamo delle dissonanze nei testi biblici a tale riguardo, esse sono riconducibili alla tipologia di linguaggio, in contesti culturali diversi.
Spesso l’uomo si affanna per cercare una risposta a tutte le domande, ignorando che una Libertà infinita sussiste, prima, durante e dopo il nostro segmento terreno.
